Booklet Giovanni Cantarini
Scandello “maestro di musica, dilettante di poesia, [che] compose belle e spiritose cantate.”(1).
Nel giorno fausto dell’investitura del duca Augusto, a elettore di Sassonia da parte dell’imperatore Massimiliano II d’Asburgo, il 25 marzo 1566, Antonio Scandello, dedica al suo protettore 24 Canzoni Napolitane a quattro voci. Nella lettera dedicatoria, un pezzo di bravura retorica debitrice nella forma forse a Habermehl, dotto membro della cappella ducale, si scorgono i temi cari all’intelligentia luterana di corte e accenni alla politica religiosa del Duca che non poco aveva fatto per unificare i luterani e affermarne gli usi a discapito delle infiltrazioni calviniste. Le affinità tematiche iniziali con la prefazione alla Katechesis – prodotto didattico-catechetico musicale dell’allora Kapellmeister Le Maistre, esaltano la Musica come dono divino da alimentare e proteggere contro l’eresia e la barbarie della languida mundi senecta, che la vorrebbero illegittimamente bandita dalla formazione e dal culto. Le Canzoni Napolitane che qui sono dette quatuor vocum carmina, non sono solo primizie di una strategia religiosa e teologica, ma anche un omaggio ai gusti del generoso patrono che si presentava così all’incontro con le cappelle imperiale e degli altri nobili germanici (non dimentichiamo che ad Augsburg, erano presenti anche Vaet e Lassus) fornito di un prodotto alla moda, esotico sì, ma addomesticato e in linea con le premesse ideologiche del dedicatario.
I brani che compongono questa fortunata raccolta – conoscerà due ristampe, nel 1572 e nel 1583 - sono un esempio della diffusione della canzone villanesca napoletana in quella forma che si stabilizzò negli anni ’60 del secolo, sotto l’influsso delle raccolte più conservative di Da Nola e delle rielaborazioni sapienti di Willaert.
Dal punto di vista testuale, il genere, nato come felice commistione di improvvisazione melodico-poetica in dialetto napoletano, sembra un’implementazione della struttura dello strambotto toscano (AB AB AB CC) con l’aggiunta di un Refrain di lunghezza variabile e dalla metrica altrettanto flessibile, le cui rime, a seconda delle tipologie testuali e dell’evoluzione geografico-cronologica, rispondono a criteri di sempre maggiore integrazione con l’invariabilità delle Mutazioni – la struttura dell’ottava–strambotto, appunto. Una forma strofica, dunque, con Refrain riassumibile con la formula Abx, ABx, ABx, CCx, laddove x indica la composita possibilità dei Refrain (da 1 a 5 versi di lunghezza variabile). Per quanto si abbiano innumerevoli varianti, la struttura di base rimane leggibile e tenderà, col passare degli anni, a una standardizzazione che si riflette nel cambio del nome: Villanesca, al suo principio, Villanella o Canzone Napolitana, nella sua fase centrale (anni ’60-‘70), infine Canzonetta fino al suo estinguersi nella prima metà del ‘600.
Il linguaggio e le tematiche trattate, sono caratterizzate da una forte impronta lessicale, onomastica, tematica, sintattica partenopea che mano a mano si stempera con il progressivo diffondersi del genere fuori dei confini del regno, nonché sotto la spinta dell’uniformazione al dettato stilistico petrarcheggiante più forte al Nord. A dire il vero, una doppia anima popolareggiante, antiaulica da un lato e sentimentale/petrarchista dall’altro, si contende lo spazio metrico e retorico di questi testi. L’amore, nei suoi accenti più sospirosi, estenuati, zuccherosi si presta a riecheggiare o addirittura a citare i versi del Canzoniere, ma la saggezza popolare, la centonizzante vena degli improvvisatori che sempre riaffiora e vitalizza il dettato con guizzi che turbano nel conto delle sillabe e dei versi il sostanziale impianto simmetrico, ne riporta i confini esperienziali alle situazioni di farsa, di mascherata, di commedia dell’arte, con toni non solo osceni, ma anche disincantati e sferzanti. La carica licenziosa, sensuale, la vitalità sentimentale del desiderio si riverberano in una fiera di “correlativi-oggettivi” ante-litteram che dal vocabolario lirico più trito, arriva ad includere il dettato prosaico del Pentamerone. La donna è invocata con ogni tipo di aggettivo e di oggetto, non ultimo con nomi di animali, che si situano a mezzo fra il pretesto di onomatopea e il riuso di topoi come quelli delle favole di trasformazione. Le situazioni di farsa e commedia dell’arte, il sostrato di pratiche improvvisatorie tradite dai parallelismi con le ottave di Velardiniello, o con testi poetici della frottola e del primo madrigale, motivano anche l’apparizione di protagonisti rustici come Ianni e i suoi compari, di maschere fisse come le popolane, le mogli infedeli, le vecchie in antitesi con fanciulle zuccherose e signore oggetto di smanie indegne di vecchi bavosi. La villanesca diventa così un genere competitivo che sgretola il primato del madrigale, ritagliandosi un’indiscussa superiorità nell’ambito della bembiana piacevolezza. Aperto resta il tema dell’autorialità per molte fonti, problema reso ancora più intrigante dal fatto che la nascita del genere rivela sì una pratica di intervento improvvisatorio mai venuto meno, ma anche un’impronta colta, che si vede non solo nella coerenza di certe scelte testuali nelle più importanti raccolte, ma anche una profonda simbiosi metrico-musicale che ben si spiegherebbe con personalità dotate in ambo le arti.
Scandello, le cui strategie editoriali devono fare i conti con l’entourage fortemente puritano e il fondo germanofono del suo pubblico (non dimentichiamo che le stampe sono fatte a Nüremberg), motiva la riduzione monostrofica di testi, per cui esistevano già intonazioni di successo (Da Nola, Lassus, Willaert) corredate delle 4 strofe previste dal genere, scusandosi per il textum peregrinum che ha adoperato. Osserviamo una curiosa, ma non proprio “indegna” - e neppure così inusitata - commistione fra una koinè petrarcheggiante e sopravvivenze dal sapore napoletano, utili ad accendere nel fruitore straniero quella scintilla di esotico. Siamo di fronte a una scelta in linea con una certa perspicuitas luterana (la comprensibilità della littera prima di tutto), ma anche forse a un mirato calcolo economico, visto che come riporta Kade(2), pare che il Nostro avesse dato disposizione a Pinello, suo collaboratore, di corredarle di una traduzione in tedesco. Scrupolo o calcolo, siamo di fronte a un genere che ha già compiuto la sua maturazione e che ha ben chiari i codici espressivi; sono questi che ne garantiscono la riconoscibilità e l’inevitabile interpolabilità a scapito naturalmente dei più genuini accenti.
Libera da ripetizioni strofiche, la scrittura musicale si compiace di un più marcato artificio: la scrittura di Walther e Le Maistre, i compositori di riferimento per Scandello alla corte di Dresda, lascia un segno di complessità che poi riaffiorerà più prepotente nei Teutsche Lieder, mentre la parafrasi contrappuntistica di Willaert e la genuinità ritmica di Nola si ripropongono in filigrana di citazioni più o meno estese, quando il Nostro si cimenta sui medesimi testi.
La sincopazione intensa, la chiarezza del dettato armonico con i suoi accordi pieni e saporosi, la ben definita gerarchia cadenzale che scontorna con grande efficacia retorica le articolazioni semantiche del testo poetico sia nella sua struttura metrica che nella macro-forma, rendono le invenzioni melodiche indimenticabili e aiutano anche lo straniero a riconoscere le situazioni gestuali dei singoli brani. Non bisogna dimenticare infatti che le esecuzioni di villanesche non erano affatto esenti da un’appropriata gestualità retorica che si fa facilmente ricondurre a tutta un’innata prassi gesticolatoria per cui il popolo partenopeo - senza per forza ricorrere agli stilemi del teatro di improvvisazione - va famoso.
Scendendo nel particolare dei brani, Haveva na gallina capelluta, costruisce la sua forza ritmica, sull’onomatopea suggerita dal senhal plebeo, la gallina, che azzera la potenziale carica nostalgico-drammatica del refrain, dapprima interrompendo il nome su ga- e poi allungando il neologismo cocotella con inserti ta. La disperata invocazione “o dio” reiterata in sincopi e articolata in terze discendenti, trasforma il dramma in una risata.
Quanto debbe allegrarse e O dolce vita mia, sono brani già noti per essere stati intonati nella famosa raccolta di Villanesche di Baldissera Donato del 1550. Questa raccolta, che conteneva anche una gettonatissima Canzone della gallina dove l’espediente delle note ribattute sul verso dell’animale, era probabilmente fra i momenti più spassosi di esecuzione, ebbe anche il merito di essere oggetto di contrafacta proprio in Germania, sia profani che spirituali. Anche l’amplificazione a quattro voci dei modelli a tre di Vicenzo Fontana, stampati nel 1545, deve aver influenzato non poco le scelte di Scandello nel settare il suo libro a quattro, invece che a tre come sarebbe nativa consuetudine del genere. Il Nostro comunque approfitta della ripetizione pronominale nel Refrain per ottenere ancora una volta un ossimoro di tensioni: tu, tu - tu, tu - tu, tu sola sei quella - l’effetto dato dal ritmo giambico su un tetracordo re-la ascendente, l’onomatopeico tubare dell’innamorato insieme al solmizzante sol-la coincidente con l’effettiva posizione delle note, sono un’efficace rappresentazione di lirismo anticlassico e quotidiano e per i cognoscenti delle significazioni erotiche del linguaggio poetico impiegato, un invito più che evidente(3). Più in linea con l’internazionalizzazione del lessico poetico, dotata di un Refrain elaborato (due settenari e un endecasillabo), la melanconica e arrendevole O dolce vita mia, indugia sulla ripetizione iniziale dell’invocazione O dolce che colora conseguentemente l’ethos del brano. Tali ripetizioni che possono estendersi alla prima sezione dell’endecasillabo iniziale, non sono rare in Scandello e nei suoi modelli (in particolare Da Nola e Willaert, in questo caso), contribuendo a quel sapore di spigliata improvvisazione e popolare freschezza cui il genere non ha mia rinunciato.
La mescolanza di registri plebeo e aulico è resa alla perfezione nella canzone Sia maledett’amor, il cui incipit certo non è una novità ma la cui costruzione, alternante un verso liricheggiante e uno popolareggiante, è sapientemente concentrata a evitare madrigalismi (si noti il brevissimo spazio concesso a e tu crudele) ed è tutta tesa al Witz finale del proverbio modificato: pr’un ponto se perdì la cappa Ianni(4). L’invettiva contro Amore, scompare di fronte al gioco divertito e allitterante della reiterazione carnevalesca pr’un ponto dove pur di stare al ritmo, si sacrifica la percettibilità della preposizione. Vale la pena ricordare che Ianni è un personaggio della Farza de li massari del noto Velardiniello (probabile pseudonimo di Bernardino Rota, secondo Cardamone e Corsi), improvvisatore e specialista di cantari, farsa appunto dove tre contadini napoletani Antuone, Ianni e Rienzo si lamentano delle loro condizioni di vita e delle rispettive terribili mogli (Cecca, Gemma e Penta o Perna) in un dialetto a tratti brutale, in una lingua immaginifica in cui abbondano gestualità oscene, ridicole, esagerate, come nelle ottave finali dove i tre si fanno testimoni oculari di improbabili e iperbolici atteggiamenti di animali che danzano, suonano, combattono in una straniata atmosfera.
Vorria che tui cantass’una canzone è un testo modellato sul doppio senso erotico sottinteso dalle sillabe musicali in Refrain: fammel’a mi sola. La sua fortuna è dimostrata dalle più di sette intonazioni ricevute nel corso della sua storia, a testimonianza di quanto la villanesca, grazie anche alla sua laica parresia, fosse recepita non solo negli ambienti accademici, ma anche salottieri e cortigiani, usata come liberatoria espressione delle pulsioni, strumento di relazione fra classi socialmente disparate e potremmo dire, persino iniziazione alla sessualità, vista la diffusione presso cantori di ogni stato sociale, sesso ed età. Il resto del testo, omesso da Scandello non avrebbe fatto altro che proseguire nella metafora musicale dell’atto sessuale e chiarire il gioco in atto.
Donna crudel, tu m’hai robat’il core appartiene anch’essa ai titoli reperibili nella fortunata collezione di Lassus. Anche qui è un corteggiatore straziato a parlare, secondo il topos dell’amore-morte. L’abbondanza di voces musicales mi/fa, dalla connotazione erotica proverbiale (se seguiamo l’interpretazione che abbondava in ambiente teorico tedesco), disseminate in posizione incipitaria nella melodia e nelle cadenze di sapore frigio, pare combaciare con la classificazione alquanto scabrosa che fa Cardamone, del suo ipotesto. Sorprende piuttosto la vitalità metamorfica della ricezione che almeno in un caso, ha annichilito la licenziosità del pezzo trasformandolo in un contrafactum: su un esemplare della ristampa del 1572, conservato a Bologna, compaiono vergati a penna, versetti del salmo 117 nella versione della Bibbia di Lutero. La meticolosa trascrizione dei due versetti (un inno di lode alla grazia del Signore che dura in eterno), scritti per intero a fondo di ogni pagina e adattati sotto ogni nota, è portata avanti per tutte le voci eccetto che per l’Altus. La permeabilità del dettato melodico al “nuovo” testo sorprende per la riuscita integrazione anche prosodica e ne motiva l’inclusione nella presente silloge.
Preparati madonn’a darm’ aita è un testo che lascia trasparire il debito al petrarchismo e alla lirica amorosa più ufficiale; la ripetizione tipica del primo emistichio che ribadisce l’accentazione peregrina dell’imperativo potrebbe riportare nel ritmo musicale ciò che di popolaresco manca nel testo, costituendosi come uno dei poli di attrazione di questo brano che oltre alla vitalità ritmico-sincopata, si fa notare per il climax quasi madrigalistico sull’avverbio tant’ e sul word-painting della locuzione inerente: tant’è crudel mia dolc’aspra ferita che nella katabasis mima l’abbandono alla sofferenza d’amore, così come ammicca ad un erotismo fisico tutt’altro che coperto.
Frutto di una probabile collaborazione con un poeta o comunque da intendersi a dittico con il numero precedente della collezione(5), il brano Bona sera, come stai mette in scena un vecchio amante (Pasquariello)(6) che intona una serenata per la sua Signora, una cortigiana o una prostituta. Nel modello di Lasso – probabile autore di molti dei suoi testi(7) - che come il brano Vorria che tu cantass’, era stato pubblicato da Dorico nel 1555 a Roma, la melodia si costituiva secondo la melanconica e soffusa cantabilità dell’aria. Scandello ripropone un atmosfera altrettanto rassegnata, usando un ambito ristretto per le voci e soprattutto spostando l’interesse melodico al Tenore più che al Canto; il moto armonico si concretizza in gestualità teatrali e in una retorica suadente di piccoli climax contrapposti fra desiderio da l’altro iorno non t’agio veduta… e abbandono A Dio, Signora.
Il contrappunto stretto in incipit e explicit, i nervosi sincopati che persistono nonostante la complessità del tessuto, l’eccitata figurazione dei motivi testuali di fugga e variar, le iperboli di ambitus su farmi contento, fanno del brano Io segua chi me fugge un esempio di come la scrittura contrappuntistica di marca nordica entri anche nel regno della villanella che nelle sue forme più internazionali ribadisce il suo porsi fra il regno della Musica simplex e quello della Ars Musica. Scandello epitoma con brani di questa fattura un’arte che fonde l’italico melodismo dell’aria, l’ingenium di una poesia radicata nella lingua d’origine e la maestria di un contrappunto trasmessogli sia dai modelli fiamminghi che dai suoi maestri a Dresda, contribuendo non solo alla fortuna europea di un genere tutto napoletano, ma addirittura assicurando la fama del suo nome nella rinascita della musica antica in quella stessa Germania che aveva eletto come sua terra.
(1) Pietro Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli, 1874, p. XII
(2) R. Kade, Antonius Scandellus. 1517-1580. Ein Beitrag zur Geschichte der Dresdener Hofkantorei, Sammelbände der International Musikgesellschaft, 15. Jahrg., H. 4 (Jul. – Sep., 1914), p. 550
(3) D. G. Cardamone, Erotic jest and gesture in roman anthologies of neapolitan dialect songs, in The canzone villanesca alla napolitana: social, cultural and historical contexts, 2008 Burlington, USA, X pp. 357-379.
(4) Il detto originale recita „Per un punto Martin perdè la cappa“ e si riferisce al refuso di punteggiatura che un frate ambizioso fece nello scrivere sulla porta del convento “Porta patens esto nulli. Claudatur honesto” (!). Martin, con tale errore di distrazione, perse l’occasione di diventare priore (mettere la cappa).
(5) Bonzorno, madonna, benvegnua, Scandello 1566, XXI
(6) Bona sera, non conosci Pasquarello? / Fami carisse et non star come muta. Così continua il testo nell’edizione di Dorico del 1555. Pasquariello è una figura da commedia dell’arte simile a Pantalone, incarnante il topos dell’amante vecchio e buggerato.
(7) La predilezione e la bravura di Lasso, nell’impersonare personaggi della commedia dell’arte e anche nello scrivere testi come strambotti, scherzi e proverbi, oltre che a improvvisarli, è nota da una sua lettera al duca Guglielmo di Baviera del 1574. Cf P. Weller, Lasso, Man of the Theater, in Orlandus Lassus and his time, ed. I. Bossuyt et al. (Peer, 1995), p. 90.
Testi
VI Haveva na gallina capelluta scodata e biancole la patanella. Tant’era bella la mia cocotella. O dio, chi la trovassi tornamella! A, B, B, B |
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VIII Quanto debbe allegrarse la natura quando te fece, donna, così bella. Tu, tu sola sei quella ch’avanz’ogn’altra bella. A, B, b, b |
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IX O dolce vita mia, non mi far guerra, ch’io mi ti rendo senza contristare e se per adorarti, io debba aver tormento, faccias’a voglia tua, ch’io son contento. A, B, c, d, D |
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XII Sia maledett’ amor e tu crudele che t’hai trovato un altr’ inamorato! Troppo fui tard’et hor n’ho dogl’e affanni: pr’un ponto se perdì la cappa Ianni. A, B, C, C |
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XIIII Vorria che tu cantass’ una canzone Quando mi stai sonando la viola Et che dicessi: fa mi la mi sol la. A, B, B |
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XVI Donna crudel, tu m’hai robat’ il core e mai non manchi de me stratiare; e pur te vogli’ amare. A, B, b |
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XVIII Preparati madonn’ a darm’ aita che se tardati, non arrò più vita, tant’è crudel mia dolc’ aspra ferita. A, A, A |
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XXII Bona sera, come stai, core mio? Da l’altro iorno non t’agio veduta. I t’agio cognosciuta di lontano; a dio, signora, tocc’ami la manu. A, B, C, C |
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XXIII Io segua chi me fugg’e se nasconde et spregio chi desia farmi contento e di tal variar mai non mi pento. A, B, B |
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